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Gino Bernabò, quel medico nato in Alabama che scrisse un pezzo di storia granata

“Noi medici sociali contiamo poco, siamo gli unici senza contratto federale”, tuona Enrico Castellacci. Nell’era della ripresa del calcio dopo la pandemia di Coronavirus, il presidente dell’associazione dei medici del calcio (LAMICA) cerca di portare l’attenzione sul ruolo dei professionisti che nell’ombra lavorano per i club. Spesso in condizioni part-time, per passione, soprattutto nelle categorie più basse. Tra protocolli da firmare e rispettare, ci si è messo anche il licenziamento (non comune) verificatosi la scorsa settimana di Andrea D’Alessandro e Italo Leo da parte della Salernitana, a far tornare d’attualità la figura del “dottore” della squadra. Leo, peraltro, è il terzo più “longevo” per carica nel club. Il primato è di William Rossi, che cessò nel 1971 l’incarico cominciato nel 1955 come successore di Gino Bernabò. Proprio quest’ultimo (foto in alto dal volume “Salernitana, storia di gol, sorrisi e affanni” di Giovanni Vitale, in compagnia di alcuni giocatori nel torneo 1948/49) è il secondo di tutti i tempi per permanenza in organico alla Salernitana, con i suoi 15 anni al servizio del cavalluccio. Ed è nella storia per essere stato il primo medico sociale dei granata in Serie A. Non solo. Nel 1944, quando si verificò l’unico caso analogo a quello dei nostri giorni, di ripartenza del calcio dopo un lungo periodo di stop (all’epoca nell’immediato dopoguerra, un anno dopo l’ultima partita e sempre in estate), c’era proprio lui a seguire ancora i giocatori in occasione della Coppa della Liberazione (clicca qui per leggere l’articolo). Certo, senza protocolli di sorta, viste le motivazioni ben diverse che avevano portato al fermo del calcio.

Dopo i primi massaggiatori, Guglielmo Borsa e Angelo Carmando, capostipite della storica famiglia di masseur, nel 1936 per la prima volta la Salernitana si era affidata in maniera ufficiale ad un medico, il dottor Cristoforo Capone, in carica fino al 1940. Poi, l’arrivo di Bernabò (foto al lato per gentile concessione della famiglia). Nato negli Stati Uniti, nell’Alabama, da una famiglia di emigranti originari di Serino (ma il cognome ha radici liguri), si laureò a Napoli e fu al servizio dei granata contemporaneamente ad altre numerose attività mediche. “Nel dopoguerra è stato medico chirurgo, uno dei pochissimi al sud Italia ad avere apparecchiature enormi di radiografia. – racconta Marco Bernabò, uno dei nipoti – Ho 54 anni, a tutt’oggi mi capita di incontrare persone che hanno una certa età e mi dicono di essere vive grazie al nonno. Mio nonno portava mio padre come mascotte in panchina, ai tempi della Salernitana. Quel bambino rimase folgorato da Boniperti a Salerno con la maglia della Juventus nel 1947/48: nacque un’amicizia indimenticabile tra le famiglie. Ricordo che fino agli anni Ottanta, prima che mio padre venisse a mancare, entravamo a Villar Perosa con Laudrup e Platini. A proposito di quel campionato di A, mio padre ricordava anche l’episodio del Grande Torino, del 7-1 rimediato al Filadelfia con l’arbitro che fece ritornare le squadre in campo per aver fischiato la fine 5′ prima del previsto (clicca qui per leggere l’articolo)”. Gino Bernabò salutò la Salernitana nel 1955, dopo la retrocessione in C. “Mi raccontano che ci rimase male e si discostò, anche se continuò a curare molti giocatori anche negli anni successivi. Lo sostituì Rossi, che era stato suo collaboratore in precedenza. – prosegue il nipote – Restò molto legato alla Salernitana, tanto da contribuire a finanziarla, in tempi molto diversi dal calcio di oggi, quando i presidenti facevano un po’ la questua tra i più ricchi della città per riuscire a iscrivere la squadra. Il nonno era abbastanza ricco e si mise spesso a disposizione. Lavorò praticamente gratis per la Salernitana”. Tant’è vero che la lasciò, raccontano le cronache nel libro “Salernitana – La Storia” di Francesco Pio e Giuseppe Fasano, con un onorario di dieci milioni e un contenzioso col vecchio club. Senza voler fare paragoni indebiti, visti i tempi totalmente diversi e probabilmente anche i numeri, un po’ quello che è accaduto in questi giorni, con i motivi economici e le spettanze arretrate tra le cause del conflitto tra il duo D’Alessandro-Leo e la Salernitana.

“Confesso che mio padre ci rimase molto male nel 1976, quando morì il nonno la Salernitana non fece minuto di raccoglimento. Lui era stato molto attivo anche in politica: fu assessore al Comune di Salerno, anche vice-sindaco con Menna. Alla sua morte il Comune avrebbe concesso di seppellirlo tra i salernitani illustri: l’avrebbero messo accanto ad Alfonso Gatto, con cui però ci raccontava di aver pure bisticciato. Non per questo motivo però, alla fine, si decise di portarlo nella cappella di famiglia. C’è un po’ di rammarico perché nella mostra del centenario dello scorso anno non fu inserito il suo nome, eppure ha fatto tanto per la Salernitana di tutte le epoche, anche quando non c’era più. Aveva stretto amicizia con l’Antonio Pasinato giocatore, che poi da allenatore tornò sul finire degli anni Ottanta e fu ospitato in casa nostra. E poi il Comune non ha mai intitolato una strada o altro al nonno. Potrebbe essere un’idea quella di mettere il suo nome all’ingresso della sala medica dello stadio Arechi, chissà”, aggiunge ancora Marco, che oggi collabora anche con la Salernitana grazie alla sua azienda di impiantistica sportiva. “Il nonno era tipo un po’ schivo e riservato, quand’ero piccolo ascoltavamo le radiocronache della Salernitana insieme. Per lui era immancabile la partita. Conservo ancora la sua radiolina. Il colore granata gli piaceva molto: ricordo che iniziarono a giocare con delle strisce bianche sul granata negli anni Settanta e lui era contrario. Era molto amico di Domenico Mattioli, il presidente della Serie A. Con lui c’era sintonia. E poi era un gran fumatore, morì purtroppo per questo”, afferma ancora il nipote dell’ex medico sociale della Salernitana che – come detto – fu sostituito da William Rossi (fino al 71), a cui successero nell’ordine Bruno Tescione (dal 1971 al 1981, morì il 24 maggio di trentanove anni fa proprio dopo una partita della Salernitana in quel di Giulianova a causa di un infarto), Leopoldo Vecchione per due stagioni, Corrado Liguori (dall’83 al ’90), Claudio Trombetti, Francesco Juliano, Giuseppe Palumbo (dal ’93 al ’99), fino agli anni più recenti con Andrea D’Alessandro (1999/01, 2002/03, 2004/06 e 2010/11), Renato Acanfora (2001/02 e 2006/08), Vittorino Testa (2003/04), Riccardo Cardasco (2010/11), Italo Leo (2008/10 e 2011/20) e l’ultimo in ordine di tempo, Epifanio D’Arrigo (clicca qui per leggere l’intervista).

Oggi come si sarebbe comportato Gino Bernabò? L’altro nipote – che porta il suo stesso nome ed è il fratello di Marco, risponde così: “Avrebbe posto in primo piano l’attenzione alla salute dei calciatori, pensando soprattutto a questo e non certo a interessi economici. Prendersi oggi una responsabilità totale e caricarla su un medico sociale mi sembra assurdo. Posso immaginare che mio nonno non sarebbe stato tanto favorevole a una ripresa delle competizioni. Ancora adesso, nonostante l’annuncio del via libera, c’è una grande confusione. Concentrare molte partite in pochi giorni pur di farle mi sembra un po’ esagerato. Lo dico da grande appassionato, il calcio mi manca. Ma avrebbero potuto attendere l’evoluzione della situazione e decidere di ripartire dopo l’estate”.

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